Il pescatore e l’acqua. Un rapporto intriso di atavicità, che racchiude una serie di rituali “sacralizzati” figli di una istintività bestiale, forma metabolizzata di una radice primitiva del modo di vivere. Le distrazioni della vita turbinosa si dissolvono sedendosi su di una pietra a guardare un corso d’acqua. Lentezza del flusso e rimescolamenti eleganti, lunghi e matematici vortici che impattano contro la forza vitale di qualche forma di vita che cerca di opporsi alla gagliardia naturale con un vitale battito. Alla forza della corrente ci si oppone solo con la caparbietà, in uno scambio permanente di intensità.
Uno specchio d’acqua può rappresentare questo, ma anche tutto l’opposto. Taijitu, teoria del contrario o soltanto asimmetria ragionata, l’acqua di un bacino sa trasmettere in alcuni casi infinito immobilismo, ostinata lentezza. Al centro dell’attenzione sempre lo stesso elemento, il fiume lo muove e lo sobilla, il lago lo ammansisce e lo accarezza. L’acqua lenta, allora, fluido devitalizzato e specchio riflessivo, basato su soffici equilibri vibranti.
Le ali di una libellula potrebbero rompere gli indugi presenti fra la forza di gravità e l’incomprimibilità del liquido. Il silenzio rispetta le acque e le attornia, l’occhio del pescatore è testimone di questo scontro ovattato. Lentezza e movimento, simbiosi e scontro. L’occhio del pescatore attende attento la frammentazione e la ricomposizione di canoni genetici primordiali, si mimetizza con quell’occhio in tutto ciò che non è acqua. Una distanza ci sarà sempre fra la nostra mente e la natura, ma qualcuno si mimetizza per minimizzarla. Colmando distanze.